GIUDITTA E OLOFERNE DI ARTEMISIA GENTILESCHI, STORIA DI UNO STUPRO E DI UNA DOPPIA VIOLENZA DAL SEICENTO AI GIORNI NOSTRI

Ci sono pregiudizi e “diritti negati” che riguardano le donne e che caratterizzano il loro essere oggi, così come secoli addietro. Questo per dire che in tema di rispetto e uguaglianza fra uomo e donna è vero che sulla carta si è fatto tanto, ma nella pratica alcune sovrastrutture sono difficili da far crollare. 

Per fare un esempio concreto di ciò voglio raccontare la vita e analizzare un’opera di Artemisia Gentileschi, attualizzando il tutto e correlandolo ad un fatto di cronaca recente: il caso Genovese.

Ecco che si può creare un parallelismo fra una delle più importanti pittrici italiane e la ragazza probabilmente abusata dal noto imprenditore durante una delle sue feste a terrazza Sentimento (le indagini sono in corso e sarà la giustizia a stabilire se si sia trattato o meno di reato e ad opera di chi).

Cosa accomunerà mai una donna del Seicento con una donna del Ventunesimo secolo? Innanzitutto entrambe hanno subito violenza, anzi potremmo dire una doppia violenza perché entrambe non sono state trattate come vittima, ma piuttosto additate e sottoposte a maldicenze ed umiliazioni di ogni genere. 

Ma partiamo con ordine: Artemisia viene stuprata da Agostino Tassi, amico del padre Orazio Gentileschi e suo maestro di pittura. L’atroce violenza subita, non fu subito denunciata dalla Gentileschi poiché il Tassi le aveva promesso di sposarla per ovviare a ciò che aveva fatto con il classico “matrimonio riparatore”, matrimonio che sarebbe dovuto avvenire nel giro di un anno. Ciò non avvenne, anzi Artemisia scoprì che il pittore era già sposato, solo a quel punto sentendosi tradita si convinse a raccontare tutto e a denunciare il fatto. L’anno passato per la denuncia dei fatti però contribuirà a suscitare ancor di più le dicerie della gente, rendendo Artemisia vittima di un altro sopruso, quello della diffamazione. La pittrice subirà un processo in cui sarà costretta a raccontare davanti a tutti e nei dettagli la violenza subita e sarà sottoposta a numerose visite ginecologiche, fortunatamente alla fine verrà riconosciuto lo stupro e Tassi sarà condannato all’esilio da Roma.

Anche la ragazza vittima dello stupro, forse da parte di Genovese (questo non è certo sarà la magistratura a stabilire chi è il colpevole e se si sia trattato o meno di stupro) sta subendo innanzitutto un processo mediatico in cui invece di puntare il dito sullo stupratore, troppo spesso si sta puntando il dito contro la vittima, sottolineando che a ben vedere se l’è andata a cercare vista la festa alla quale aveva deciso di partecipare e l’ambiente e il giro che aveva scelto di frequentare. Ci si dimentica che così facendo la ragazza sta subendo ancora una volta violenza, perché è costretta a giustificarsi proprio come accadde ad Artemisia, e a difendersi da accuse imbarazzanti dimenticando il sacrosanto diritto che ogni donna ha a dire NO, anche se si dovesse trattare di una prostituta.

La Gentileschi è riuscita però ad esorcizzare la violenza subita dipingendo il capolavoro Giuditta e Oloferne. Nel dipinto è come se al posto della bella Giuditta, paladina del popolo ebraico, ci fosse proprio lei, Artemisia, che conscia della violenza subita si stia vendicando su Oloferne-Tassi uccidendolo con l’inganno e con la ferocia, su quel letto che era stato palcoscenico della violenza subita. Forse in questa maniera la pittrice è riuscita a “liberarsi” della violenza subita mettendo olio su tela il suo grido di dolore e l’angoscia provata.

Tanto è vero che la Giuditta di Artemisia, rispetto a quelle realizzate da altri pittori, ha il volto duro, determinato quasi come se fosse compiaciuta del dolore perpetuato. Una Giuditta che viene aiutata dall’ancella a conferire il colpo mortale su un Oloferne che ha le sembianze di Agostino Tassi. Anche lo stesso sangue presente così vividamente sulle lenzuola può essere letto non solo come un riferimento alla vendetta compiuta, ma anche e soprattutto alla violenza subita che nonostante tutto ha lasciato un segno, una macchia indelebile. 

Dott.ssa Anna Nica Fittipaldi

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La Crocifissione di Mariano Lanziani

quadro san nicola LanzianiL’opera che analizzerò in questo articolo è situata nella Chiesa Madre San Nicola di Bari in Lauria, nello specifico nella cappella dedicata al Beato Domenico Lentini.

L’autore è Mariano Lanziani, artista di origini lauriote conosciuto soprattutto per la sua attività pittorica di matrice religiosa e operante per lo più in terra lucana.

Nell’opera è raffigurato Gesù crocifisso con ai suoi piedi la Vergine, Maria Maddalena e San Giovanni Evangelista.

Il Lanziani ambienta il fatto sacro in uno scenario naturalistico caratterizzato da pochi elementi; difatti come ben sappiamo la Crocifissione si svolse sul monte Golgota, ed è proprio uno scenario naturalistico, montuoso quello dipinto dal pittore come proscenio sul quale si svolgono i fatti rappresentati. A far da sfondo alla Crocifissione una veduta di città, purtroppo i pochi elementi architettonici dipinti non permettono di individuare la città di riferimento, ma la si potrebbe definire come una città ideale. Forse, questa scelta compositiva è stata fatta per conferire maggiore rilevanza alla raffigurazione del “Sacro” senza troppi orpelli che avrebbero potuto distogliere l’attenzione dello spettatore.

Da notare è anche l’importanza data al cielo, il quale occupa i ¾ dello sfondo,  un cielo simbolico il cui colore reso quasi a sfumature che gli conferiscono una tonalità rossa aranciata, fa riferimento al colore cardine della Passione di Cristo.

Protagonista assoluto della scena è Gesù, rappresentato sulla croce di legno, su cui è visibile la scritta INRI (Jesus Nazarenus Rex Iudaeorum). L’artista fedele all’iconografia classica lo dipinge seminudo coperto solo da un drappo bianco, ciò rende ben visibili le ferite sul suo corpo. Gesù ha le mani e i piedi sanguinanti per essere stati trafitti dai chiodi con i quali fu messo in croce e un’altra ferita al costato che fu realizzata da un soldato che lo colpì con la lancia. Il volto di Cristo, con il capo circondato dalla corona di spine e dall’aureola non ha un’espressione sofferente, ma al contrario sembra quasi calmo, imperturbabile come se niente potesse più fargli del male.

Alla sua sinistra la Madonna vestita nei colori canonici del blu e del rosso, che richiamano rispettivamente il colore celestiale della divinità e il colore terreno, l’esistenza terrena.  La Madonna è resa con le mani giunte in segno di preghiera mentre il suo volto ed il suo sguardo sofferente e a tratti preoccupato sono rivolti verso suo figlio. Alla base della Croce ai piedi di Cristo è Maria Maddalena, raffigurata con i tipici capelli lunghi sciolti, il volto sofferente, mentre sembra quasi che con le mani stia raccogliendo il sangue che fuoriesce dalle ferite ai piedi di Gesù. Alla destra di Cristo vi è Giovanni l’Evangelista, il più giovane e il prediletto tra gli apostoli. Nella scena della Crocifissione egli occupa un posto privilegiato accanto alla croce con la Madonna che Cristo gli affida in punto di morte. San Giovanni è detto in tale contesto “dolente”, e ben lo si percepisce sia dalla sua espressione sia dal modo in cui ha le mani intrecciate e rivolte verso il basso. Questa iconografia si  ritrova spesso nelle rappresentazioni del santo è presente infatti in diverse opere, tra cui il Trittico Galitzin del Perugino.

A livello stilistico la tela si caratterizza per una scelta compositiva incentrata sulla semplicità, pochi gli elementi architettonici, solo alcuni edifici identificabili con quelli di una città come un ponte e altre costruzioni sullo sfondo, molta importanza è data invece alla raffigurazione del fatto Sacro che si svolge in primo piano occupando così la stragrande maggioranza del dipinto.

La tela sembra piuttosto statica, difatti i protagonisti sono come bloccati, assorti in espressioni contemplative o di dolore. Seppur un certo movimento è dato dai drappeggi delle vesti e dall’utilizzo della prospettiva che dona profondità alla scena raffigurata.

A livello coloristico e luministico abbiamo una prevalenza di tonalità chiare e molta luce soprattutto nella parte superiore, sembra quasi che i personaggi siano rischiarati dalla luce del sole, resa con pennellate sfumate che vanno dal giallo all’arancione fino quasi al rosso, questo espediente pittorico oltre a dare profondità alla scena dona calore anche alle tonalità fredde delle vesti dei personaggi.

Dott.ssa Anna Nica Fittipaldi

ULTIMA CENA CHIESA SANT’ANNA LAGONEGRO

 

 

Autore Ignoto

Ultima cena

Chiesa di Sant’Anna

Lagonegro

LETTURA ICONOGRAFICA ED ICONOLOGICA

Sul dipinto, situato attualmente presso la chiesa di Sant’Anna in Lagonegro è raffigurata l’Ultima Cena, in particolare l’ignoto artista ha scelto di prediligere il tema eucaristico tanto che il soggetto può essere anche definito come Istituzione dell’Eucarestia.

Invero, ciò che si vede è il momento mistico e solenne, in cui Gesù istituisce tale sacramento attraverso il quale offre il proprio corpo ed il proprio sangue agli Apostoli sotto forma di pane e di vino. Il Cristo, infatti, è rappresentato proprio nell’atto di benedire, mediante il classico gesto delle due dita sollevate, il pane che simbolicamente rappresenta il suo corpo; il gesto dell’indice e del medio sollevati mentre le altre dita sono chiuse verso il palmo della mano indica anche che si sta pronunciando un discorso elevato e solenne da parte di figure di alta dignità. L’episodio dell’Ultima Cena si trova nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca, Gesù e i 12 Apostoli volevano celebrare la Pasqua ebraica. Durante l’Ultima Cena Gesù anticipa alcuni avvenimenti, come il tradimento di uno degli Apostoli e la crocifissione.

A differenza delle raffigurazioni canoniche dell’Ultima cena che avvengono sempre in ambienti piuttosto semplici ed umili, anche perché quello che stava accadendo era un momento molto mistico e solenne, in questo caso la stanza in cui si svolge l’evento sacro è molto particolare e contraddistinta da possenti architetture. Alle spalle di Gesù abbiamo due pilastri molto imponenti con un capitello semplice e squadrato, essi appaiono quasi in secondo piano poiché la scena dell’Ultima cena è incorniciata come se si stesse svolgendo su di un palcoscenico teatrale da due tende di broccato rosso riccamente decorate in oro sui bordi, esse però non sono disposte a mò di cortina teatrale, ma annodate sulla sommità in modo da conferire più spazio al fatto sacro.

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Bisogna sottolineare alcune “stranezze” nella rappresentazione degli elementi architettonici che fanno da sfondo alla scena sacra, i pilastri appaiono troppo spessi e soprattutto troppo ravvicinati fra di loro, l’artista volendo esaltarne la resa prospettica ed il punto di fuga mirabilmente coincidente con la figura di Gesù, ha creato uno spazio troppo stretto ed impraticabile per corrispondere ad un’architettura reale.

Gesù e i dodici apostoli sono disposti a cerchio intorno alla tavola rotonda, imbandita solamente di poche pietanze fra cui il pane, evidente richiamo all’eucarestia, ed un piatto in cui campeggia un animale di non facile identificazione che potrebbe essere un maialino, una porchetta. La presenza di un maiale all’interno di una raffigurazione dell’ultima cena, per quanto può sembrare strana, non è da escludere perché secondo l’Iconologia di Cesare Ripa fa riferimento all’avidità, quindi potrebbe simbolicamente essere collegata a Giuda che ha venduto Gesù per trenta denari e quindi all’annuncio fatto da Cristo durante l’Ultima cena secondo il quale uno degli apostoli lo avrebbe tradito, annuncio che come si vede dalle espressioni degli apostoli li lascia sgomenti e stupefatti. L’animale raffigurato nel piatto potrebbe essere anche un coniglio, ma propenderei più per il maiale perché il coniglio dovrebbe essere raffigurato in forma più allungata con le zampe più slanciate e anche coda e muso più lunghi. Tale approssimazione nel disegno non si addice all’artista perché non l’ha dimostrata nella resa né delle emergenze architettoniche che fanno da sfondo alla scena, né tantomeno nella resa e nella caratterizzazione dei protagonisti.

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Gesù è rappresentato al centro della scena secondo l’iconografia classica con capelli e barba lunghi e con i vestiti di colore rosso e blu, due colori iconici poiché il rosso è un evidente richiamo alla passione di Cristo, mentre il blu è il colore mariano per eccellenza, quindi un richiamo alla Vergine madre. Accanto a Gesù con le mani giunte al petto abbiamo l’apostolo Giovanni, il preferito di Gesù ed il più giovane, contraddistinto da un aspetto mite e dolce, quasi femminile.

Di fronte a Gesù rappresentato con il corpo rivolto agli spettatori è Giuda, riconoscibile per la presenza del sacchetto dei trenta denari che stringe nella mano destra. La sua è una posa, particolare ed innaturale poiché è seduto con le gambe incrociate, una posa che indica chiusura nei confronti degli altri protagonisti.

Dei rimanenti apostoli alcuni sono attenti all’evento mistico che si sta svolgendo, altri sono intenti a parlare fra di loro contraddistinti da espressioni incredule e preoccupate dovute all’annuncio del tradimento fatto da Gesù.

Ai piedi del tavolo troviamo un gatto ed un cane, non a caso il gatto simbolo di infedeltà e tradimento è raffigurato nero, mentre il cane simbolo di fedeltà è bianco.

A dividere i due vi è una brocca, probabile allusione al precedente momento della lavanda dei piedi, oppure essere uno strumento liturgico in quanto il sacerdote la utilizza per lavarsi le mani prima della consacrazione. Gesù lavò personalmente i piedi degli Apostoli, dando loro una grande lezione di umiltà, poiché generalmente tale mansione era svolta dal servo di rango inferiore.

LETTURA STILISTICA

A livello stilistico notiamo come l’ignoto pittore si è dimostrato abile a rendere mediante la rappresentazione della scena un’attenta registrazione del quotidiano, con la resa naturalistica dei personaggi caratterizzati da espressioni che potremmo definire ingenue, spontanee che ben fanno trapelare i sentimenti di stupore, incredulità e tristezza.

A livello coloristico abbiamo una predominanza di colori freddi, le dimensioni spaziali sono create dal rapporto luce-ombra sia nel fondo del dipinto sia sulla tavola e nel primo piano. Le figure si contraddistinguono per una ricercata resa volumetrica data oltre che dalla rappresentazione delle torsioni muscolari, anche dalla raffigurazione delle pieghe sui vestiti dei personaggi che movimentano la stoffa creando effetti coloristici e luminosi, conferendo in questa maniera movimento e volumetria. Un altro espediente spesso usato dai pittori per catturare la luce è quello di dipingere stoffe annodate, come accade per le tende di broccato rosso.

Il pittore si è dimostrato fin troppo meticoloso nella resa prospettica della scena, sopratutto nel fondo del dipinto, tanto da accentuare il punto di fuga all’estremo per farlo coincidere con la figura di Gesù creando però in questa maniera uno spazio piuttosto angusto e ristretto.

Dott.ssa Anna Nica Fittipaldi

ULTIMA CENA CONVENTO DI SANT’ANTONIO RIVELLO

Giovanni Todisco

Ultima Cena

Affresco

Refettorio Convento di Sant’Antonio Rivello

1559

LETTURA ICONOGRAFICA ED ICONOLOGICA

L’affresco, conservato all’interno del refettorio del Convento di Sant’Antonio a Rivello fu realizzato nel 1559, come si evince dalla data presente sullo stesso in alto a sinistra sullo stipite della porta, ad opera di Giovanni Todisco pittore lucano originario di Abriola.

Sull’affresco è raffigurata l’Ultima cena, precisamente l’artista ha scelto di prediligere il tema eucaristico, cogliendo l’attimo in cui Gesù impartisce il sacramento dell’eucarestia donando così il suo corpo ed il suo sangue.

L’affresco del refettorio si caratterizza per diverse particolarità iconografiche ed iconologiche, innanzitutto a differenza delle raffigurazioni canoniche dell’Ultima cena che avvengono sempre in ambienti piuttosto semplici ed umili, anche perché quella che si stava celebrando era la Pasqua ebraica un momento molto mistico e solenne, in questo caso la stanza in cui si svolge l’evento sacro è evidentemente un ambiente regale, nobiliare caratterizzato anche dalla presenza di più personaggi rispetto al solito.

La stanza in cui si trovano i personaggi dipinti è riccamente decorata, infatti lo sfondo del dipinto è reso mediante delle architetture che ricalcano un salone nobiliare, per di più abbiamo sulle pareti le famose grottesche, tipologia di pittura diffusasi capillarmente nel corso del Cinquecento. Il Todisco, così come numerosi pittori dell’epoca, deve sicuramente essere stato influenzato dalle decorazioni fatte da Raffaello nelle Logge Vaticane, a sua volta ispirato dai ritrovamenti archeologici della Domus aurea di Nerone, scoperti nel 1480 e divenuti immediatamente popolari tra i pittori dell’epoca che spesso vi si fecero calare per studiare le fantasiose pitture rinvenute. Furono essi che in seguito diffusero questo stile dando vita a quella che il Longhi definisce la “curiosa civiltà delle grottesche”.

Ma la sfarzosità non si ferma alle decorazioni parietali ed all’architettura della sala, poiché anche la stessa tovaglia è di un tessuto prezioso, tanto da sembrare damascata. Tutto questo lusso si spiega facilmente indagando i personaggi presenti all’interno dell’affresco all’infuori di quelli canonici, difatti alle due estremità notiamo la presenza di un uomo ed una donna riccamente abbigliati e due inservienti atti a portare bevande e pietanze ai divini commensali, anch’essi abbigliati con abiti sfarzosi; i due personaggi altri non sono se non il feudatario del tempo di Rivello, nonché committente dell’affresco, Ettore Pignatelli con la moglie. A questo punto è scontato pensare che la scena sia ambientata all’interno della loro lussuosa dimora, proprio come se i regnanti ricevessero i divini commensali per una cena.

Ma le particolarità di quest’Ultima cena non si fermano qui, infatti se ben si osserva la tavola imbandita si nota la presenza di pietanze non canoniche nelle raffigurazione dell’Ultima Cena, ma tipiche della zona quali il famoso biscotto ad otto sulla sinistra, il coniglio ripieno, le fave, le castagne, le noci, i granchi anche questi venivano pescati in un fiume vicino ed erano un alimento consueto dei tempi. Oltre a questi cibi non usuali, ne sono raffigurati altri dal significato simbolico evidente e collegato al fatto sacro dipinto, come le ciliegie simbolo della passione di Gesù per via del colore che evoca il sangue, la melagrana simbolo di resurrezione, la mela simbolo della caduta dell’uomo, della tentazione un ovvio riferimento a Giuda ed al suo tradimento, la pera identificata come frutto della conoscenza  perché pare che l’albero della conoscenza del Paradiso fosse un pero, quindi conoscenza da intendersi in riferimento del venire a conoscenza del tradimento da parte di Giuda, ed in ultimo l’arancia riferimento al peccato originale.

Passando ad indagare gli altri personaggi dell’Ultima cena vediamo come Gesù è reso nel momento in cui impartisce il sacramento dell’Eucarestia a Giuda, riconoscibile per la presenza del simbolo iconografico del sacchetto contenente i famosi trenta denari guadagnati con il tradimento, Giuda è l’unico apostolo che dà le spalle agli spettatori e a differenza degli altri ha l’aureola nera e non luminosa tutti indizi della sua negatività, inoltre il fatto stesso che Gesù impartisca proprio a lui l’Eucarestia può anche essere un modo per indicarlo, visto che durante l’Ultima cena Gesù svela agli Apostoli che uno di loro lo tradirà. Gli altri Apostoli, infatti, sono colti in pose che fanno trapelare incredulità, anche la loro gestualità è studiata nei minimi dettagli, infatti alzano i palmi delle mani quasi come a giustificarsi dicendo “non sono stato io”. l’Apostolo Pietro si riconosce per essere raffigurato a sinistra di Gesù che incrocia le mani al petto in una chiara espressione di preoccupazione, mentre dal lato opposto rappresentato disteso sulla tavola come addormentato in un’espressione mite è Giovanni discepolo preferito di Gesù.

In corrispondenza di Giovanni sotto al tavolo è raffigurata la Maddalena nell’atto di baciare i piedi di Gesù con accanto l’ampolla contenente gli unguenti suo attributo iconografico. Ai piedi del tavolo sono dipinti, inoltre, Sant’Antonio da Padova inginocchiato con i classici attributi canonici del saio e del giglio ed un gatto ed un cane che si affrontano chiaro simbolo ancora una volta di tradimento e scena raffigurata spesso nelle rappresentazioni dell’Ultima Cena.

LETTURA STILISTICA

A livello stilistico notiamo come il pittore di Abriola si è dimostrato molto abile a rendere mediante la rappresentazione della scena un’attenta registrazione del quotidiano, dimostrandosi meticoloso nella resa naturalistica dei personaggi caratterizzati da espressioni che potremmo definire ingenue, spontanee che ben fanno trapelare i sentimenti. A livello coloristico vediamo come le dimensioni spaziali sono create dal rapporto luce-colore più che luce-ombra e che le figure si contraddistinguono per un luminoso plasticismo e per una ricercata resa volumetrica data anche dalla rappresentazione delle pieghe sui vestiti dei personaggi che movimentano la stoffa creando effetti coloristici e luminosi conferendo in questa maniera movimento e volumetria. Si possono notare, inoltre, quasi due piani di rappresentazione distinti, nel senso che per la raffigurazione di fondo dell’interno dell’ambiente nobiliare il Todisco dimostra un uso sapiente della prospettiva e della resa spaziale con mirabili punti di fuga, tale attenzione, invece, si affievolisce nella rappresentazione della tavola in primo piano e soprattutto delle pietanze che appaiono in alcuni casi quasi piatte, forse tale espediente prospettico è stato realizzato per conferire maggiore visibilità alle pietanze visto l’importante significato simbolico che esse avevano.

Dott.ssa Anna Nica Fittipaldi

PALAZZO DE LIETO DA RICOVERO PER MENDICI A SEDE MUSEALE

 

 

Il Palazzo De Lieto prende il nome dalla famiglia di origine amalfitana che nel lontano XVI sec si insediò a Maratea. Il nome della famiglia fu erroneamente cambiato in De Lieto, nel corso degli anni, per un errore di trascrizione.

I Di Lieto si trasferirono a Maratea in occasione del matrimonio fra  Carmine Di Lieto e la figlia del notaio Francesco Antonio Greco. Maratea al tempo godeva di particolari immunità e privilegi concessi dalla casa reale, molto probabilmente, dunque, la scelta del luogo fu dovuta a circostanze favorevoli soprattutto in materia di attività commerciali. A Maratea alla famiglia è dedicata anche una cappella, quella intitolata alla SS. Trinità, ubicata nella chiesa di Santa Maria Maggiore in virtù delle molteplici donazioni fatte da loro.

L’edificio che tutt’ora porta il nome De Lieto fu costruito nel lontano 1734, a proprie spese, da Giovanni De Lieto.

Il benefattore grazie ad un atto testamentario stabilì anche la concessione di una rendita, di tutto il corredo necessario e della relativa casa nei pressi della Chiesa Madre, di quello che secondo le sue volontà doveva essere un “ricovero per mendici”. La struttura nel 1831 fu elevata a rango di ospedale distrettuale da Ferdinando II di Borbone.

Fu alla fine del XIX sec che il palazzo De Lieto cessò la sua funzione ospedaliera, per essere adibito poi a sede scolastica.

Il nome dei De Lieto a Maratea è però tutt’oggi legato ad un ospedale, a Giovanni De Lieto è stato infatti intitolato l’ospedale di Maratea.

Palazzo De Lieto è ubicato a Maratea inferiore nei pressi della Chiesa Madre, e poggia su uno sperone roccioso a vista, integrandosi così perfettamente con le bellezze paesaggistiche, attraverso un affaccio privilegiato sul Golfo di Policastro. L’ingresso è contraddistinto da un portale scolpito a lastre di pietra lavorate a bugne con una conchiglia al centro dell’arco, coevo alla costruzione dell’edificio.

Il benefattore e l’edificazione del De Lieto sono ricordati da una lastra marmorea situata sul frontone che recita: XENODOCHIUM A JOANNE DE LIETO PROPRIO AERE ANNO MDCCXXXIV CONSTRUCTUM ORONTIUS DE FAMILIA HOC LAPIDE ADMONITAM POSTERITATEM VOLUIT (Xenodochio costruito a proprie spese da Giovanni De Lieto nell’anno 1734. Oronzio, della stessa famiglia, con questa lapide volle ricordarlo ai posteri).

Il palazzo si erge su due piani, ogni piano ha quattro vani e a sinistra della facciata principale al secondo piano vi sono quattro finestre angolari ad arco che danno luce alla scala interna, coperta con voltine a crociera. A lato mare il palazzo, per entrambi i piani, presenta due loggiati con volte a crociera; il loggiato del primo piano è formato da due arcate di grandi dimensioni, mentre quello del secondo piano ne ha cinque, di cui una più piccola. Gli archi a tutto sesto poggiano su sei colonne di piccole dimensioni di natura lapidea.

All’interno del primo ambiente è presente un altare in stucco sormontato da una cornice delimitata da volute. Esso è inserito in un’arcata contraddistinta da uno stemma coronato raffigurante un uccello con una foglia nel becco.

L’ edificio oggi è di proprietà del MIBACT, ed è stato adibito a sede museale. I piani di palazzo De Lieto ospitano sia mostre temporanee sia collezioni permanenti afferenti al Museo Archeologico che ha sede al suo interno. L’esposizione è concepita su due livelli, il primo dei quali interamente dedicato alle tematiche dell’archeologia subacquea.

Nella prima sala è ubicata la sezione didattica sulla navigazione, le navi e le loro tecniche costruttive nell’antichità, poi viene presentata la collezione di ancore e cerchi d’ancora provenienti dal giacimento di “Santo Janni” costituito da oltre 60 reperti dal II sec aC al II dC (ritenuto da studiosi illustri il giacimento più importante del Mediterraneo).

Gli esemplari più suggestivi e degni di nota sono: un ceppo d’ancora con inciso il termine VENUS capovolto, da Venere uno dei numi tutelari per eccellenza dei marinai (presumibilmente era il nome della nave che lo trasportava). Ed altre ancore con inciso gli “astragali” – riproduzione di ossa di animali che si riteneva portare fortuna, una con cassetta laterale (e non centrale come tutte  le altre) e braccia a sezione triangolare, usata probabilmente, per la navigazione fluviale, raffigurazione ascrivibile sempre alla venerazione della dea Venere poiché la combinazione fortunata che viene rappresentata è infatti quella detta “colpo di Venere”.

Nella saletta adiacente in una vetrina orizzontale sono conservati i reperti ossei  di animali recuperati nella grotta LINA, nei pressi di Marina di Maratea, risalenti al periodo pleistocenico ca.150.000 anni fa. Successivamente, abbiamo una sezione dedicata alle anfore, contenitore d’eccellenza per il trasporto marino.

Al secondo piano vi è un’esposizione che ha come scopo quello di documentare, nelle varie epoche, l’interazione  tra i naviganti e gli abitanti della costa, spaziando perciò dai siti dell’Età del Bronzo agli insediamenti preromani, romani e altomedievali, sino al sistema di difesa costiera creato in età moderna.

Al momento, gli aspetti illustrati sono quelli più direttamente connessi al mare:  la lavorazione del pesce e la produzione di garum, salsa di pesce che veniva prodotta nella peschiera situata sull’isola di “Santo Janni”.

La ricerca di testimonianze di archeologia subacquea a Maratea ebbe inizio tra gli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, grazie ad un gruppo di subacquei piemontesi, che effettuarono anche i primi recuperi, ragion per cui il primo ceppo strappato ai fondali, nel 1966, si trova nel museo di Torino, ed altri due, recuperati tra il 1975 e il 1977, nel Museo del Mare di Venaria Reale.

A questi primi ritrovamenti seguirono nuove segnalazioni: così, nel 1980, la Soprintendenza decise di procedere ad un primo controllo del fondale presso “Santo Janni”, ed in poche ore i subacquei riemersero con un ceppo ed una contromarra in piombo. Un’esplorazione in piena regola, fu svolta nel 1981, con il recupero di nove ceppi e di una seconda  contromarca, a questo punto si ebbe la certezza che si trattasse di un vero e proprio giacimento di ancore. Dopo il 1981, le ricerche subacquee a Maratea segnarono però una lunga battuta d’arresto, con una sola eccezione: la scoperta, nel 1986, di un relitto poco a Sud di “Punta della Matrella”, ed il recupero di buona parte del suo carico. Un lieve incremento si è avuto ancora nelle campagne svolte tra il 1996 e il 1999 (anno in cui la ricerca si è interrotta); in ogni caso, con un totale di 63 pezzi, quello di “Santo Janni” si conferma come il giacimento di ancore pertinenti a navi onerarie più consistente del Mediterraneo.

Un recente scavo, nei pressi della piccola cappella absidata i cui ruderi sopravvivono sulla cresta dell’isolotto, ha messo in luce, in un piccolo recinto quadrangolare, alcune sepolture delimitate da  muretti in pietre, laterizi e calce, e  ricoperte con tegole;  i pochi oggetti di corredo si datano tra il VI e il VII secolo d.C. Non ci sono al momento elementi per collegare queste presenze con la tradizione  sull’arrivo delle reliquie di S. Biagio, né per datare con precisione la costruzione della chiesetta;  Il luogo si è pero sempre contraddistinto per un’aura di sacralità, confermata anche dal fatto che tra il XVII e il XVIII secolo, alcuni pellegrini, riconoscibili da medagliette devozionali e  grani di rosario, sbarcò sull’isola e, sentendo ormai prossima la fine della vita, scelse di rimanervi per sempre, facendosi seppellire tra le rovine della cappella: è questo,  forse, l’ultimo segreto di “Santo Janni”.

Verrà inaugurata il 7 agosto alle ore 18:30

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la prossima mostra che si terrà a Palazzo De Lieto, fino ad ottobre che si intitolerà: “Tra la Val d’Agri e il mare. Archeologia e paesaggi lucani.” La mostra ha lo scopo di valorizzare l’importantissimo patrimonio archeologico del territorio Lagonegrese, con focus su Maratea e Guardia Perticara.

 

 

PROPOSTE PER LA REDAZIONE DELLA STRATEGIA DI SVILUPPO LOCALE LEADER 2014/2020

L’ASSE 4 Leader del PSR Basilicata 14/20 prevede l’elaborazione di una strategia di sviluppo locale di tipo partecipativo. Tale strategia dovrà essere basata su azioni di miglioramento delle capacità degli attori locali pubblici e privati.

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Le azioni di miglioramento e sviluppo presenti nella strategia dovranno essere coerenti con massimo 3 ambiti tematici previsti.

Le proposte Sistema di itinerari e di percorsi grandi attrattori-aree interne e Percorsi di trekking urbano prevedono delle azioni di marketing territoriale che rientrano in tre ambiti tematici: Reti e comunità intelligenti; Valorizzazione dei beni culturali e patrimonio artistico legato al territorio; Turismo sostenibile.

Entrambe le proposte hanno come scopo quello di accrescere il grado di competitività e di attrattività del territorio.

La prima proposta, Sistema di itinerari e di percorsi grandi attrattori-aree interne, prevede la creazione di una serie di itinerari e percorsi, sia reali sia virtuali da percorrere a piedi o in bicicletta, in macchina o in moto che andrebbero a collegare in una rete intelligente i grandi attrattori presenti sul territorio del Gal di nuova costituzione, e che permetterebbero in questo modo di ammirare il patrimonio storico, artistico, enogastronomico, ambientale e spirituale del territorio.

Per grandi attrattori intendo sia quelli già realizzati o in via di realizzazione come quello sulla diga di Senise o sul lago Sirino, sia quelli ancora da realizzare come ad esempio quelli previsti nel progetto Ultimo Miglio. I comuni interessati dai grandi attrattori sarebbero, dunque, attraverso questi percorsi collegati ai comuni delle aree interne. Tale strategia consentirà oltre al rafforzamento dei grandi attrattori esistenti, la creazione di altrettanti poli storico-culturali e la riconnessione con i diversi siti e punti di eccellenza del territorio, attraverso itinerari tematici.

In questo modo si riuscirebbe non solo a valorizzare le aree rurali, ma anche a destagionalizzare i flussi turistici ipotizzando dei percorsi tematici che possano favorire l’offerta turistica anche in periodi dell’anno in cui la domanda turistica è più scarsa o in cui i grandi attrattori non sono funzionanti, completando in questo modo l’offerta turistica regionale.

I diversi percorsi andrebbero messi a sistema in modo da creare degli itinerari capaci di convogliare i flussi di visitatori dei grandi attrattori verso le aree interne, puntando su una comunanza di tematismi.

La creazione di questa rete di itinerari e percorsi sarebbe utile anche per risolvere un altro annoso problema della nostra regione, quello della permanenza dei turisti. Spesso, infatti, il turista che visita un paese della Basilicata rimane solo una giornata, invece creando un sistema di collegamento e connessione fra i diversi borghi il turista potrà aumentare i giorni di permanenza spostandosi da un luogo all’altro accomunati da specifici tematismi.

 

La seconda proposta, Percorsi di trekking urbano, sarebbe utile soprattutto per migliorare l’offerta turistica delle aree rurali prevedendo la creazione di percorsi con diversi livelli di difficoltà in modo da permettere a qualsiasi tipologia di turista di poterli affrontare agevolmente. Tale proposta rientrerebbe nell’ambito: Turismo sostenibile e Valorizzazione dei beni culturali e patrimonio artistico legato al territorio. In questa maniera si andrebbero a valorizzare anche i paesaggi non solo i bc e si creerebbe un’attrattiva turistica anche per i piccoli borghi. Tale offerta turistica andrebbe ad indirizzarsi verso una tipologia di turismo più slow, che ami stare a contatto con la natura e con l’arte e che ami il relax e la tranquillità tipici dei nostri paesi.

Attraverso il trekking urbano si promuoverebbe la conoscenza e valorizzazione dei borghi ed inoltre, con la creazione di diversi percorsi, si punterebbe a destagionalizzare l’offerta turistica. I percorsi pensati, mediante la gamification e le tecnologie ICT potrebbero divenire dei veri e propri strumenti di edutainment per attrarre anche le nuove generazioni.

Anche i percorsi di trekking urbano potrebbero essere messi “in rete” in quanto risulta sempre più indispensabile istituire un coordinamento di tutti i comuni in modo da rafforzare i legami di fratellanza, solidarietà e cooperazione.

Per entrambe le proposte (Sistema di itinerari e di percorsi grandi attrattori-aree interne, Percorsi di trekking urbano) si punterebbe anche all’utilizzo delle nuove tecnologie per mezzo di app, di tour virtuali a 360°, della realtà aumentata e di ricostruzioni 3D. Si potrà ipotizzare la realizzazione di una piattaforma multimediale che permetterà di interagire in maniera dinamica e interattiva con gli itinerari tematici ed i percorsi di trekking urbano. A quest’ultima, potrà essere abbinata un’applicazione che consentirà al turista, di mettersi in rete con luoghi, mappe, racconti viaggio, monumenti ed eccellenze paesaggistiche ed enogastronomiche attraverso l’attuale tecnologia.

In questa prospettiva, bisogna dar vita ad un processo di sviluppo inteso come qualificazione, riqualificazione e creazione ex novo di attività, servizi e fattori di attrattiva che, situati in uno spazio definito, siano in grado di proporre un’offerta del patrimonio rurale e culturale articolata ed integrata, strutturando un unicum sia dal punto di vista contenutistico/esperienziale/emozionale sia spaziale/di fruibilità/usabilità/accessibilità (territorio user friendly).

La numerosa presenza sul territorio di associazioni culturali, inoltre, creerebbe i presupposti per il coinvolgimento di persone specializzate “in loco” pronte ad accogliere ed informare i turisti sul patrimonio culturale, rurale, paesaggistico ed enogastronomico tipico, rafforzando così i servizi turistici anche in quei luoghi in cui sono carenti.

Per entrambe le proposte sarebbe opportuno realizzare un sistema di segnaletica, questa infatti contribuirebbe a rendere il territorio accattivante, a proporre dei percorsi immersivi e coinvolgenti, aggiungendo man mano nuovi tasselli, nuove informazioni sul territorio, che andrebbero ad arricchire conoscenze già possedute e che contribuirebbero in maniera significativa ad avvicinare il visitatore-ospite ad un patrimonio fino a quel momento sconosciuto o di difficile penetrazione, facilitandone e ampliandone la comprensione.

In conclusione è, insomma, necessario che si strutturino le condizioni affinchè il territorio passi da luogo a destinazione, da “luogo geografico” a prodotto complesso, configurando un’offerta che presuppone un’attività di coordinamento (management) strutturata sul territorio, capace di mobilitare e coinvolgere gli attori locali ed il tessuto economico e sociale verso una fruizione innovativa e interrelata tra tutte le risorse presenti nell’area.

La cultura del territorio, la cultura della qualità e la cultura della cooperazione, combinando strategicamente tutela, recupero, attrattività, fruibilità e comunicazione, vanno a connotare l’unicità dell’area, costituiscono l’elemento di differenziazione rispetto ad altri contesti, garantiscono, attraverso un intervento di riconnessione territoriale, un’offerta multiprodotto per flussi multimotivazione, diversificando i singoli elementi/tematismi all’interno di un “prodotto-territorio” / “prodotto esperienza”.

 

 

Dott.ssa Anna Nica Fittipaldi

DALL’ANALISI DI UNA TELA ALLA FORMULAZIONE DI IPOTESI SUL RAPPORTO SPIRITUALE ESISTENTE FRA IL BEATO DOMENICO LENTINI E SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI

 

 

Qualche tempo fa, precisamente il 12 ottobre è stato celebrato presso la Chiesa Madre San Nicola di Bari il 19esimo anniversario della beatificazione del Lentini alla presenza del Vescovo Mons. Orofino e dell’arcivescovo Monsig. Sirufo.

Più che soffermarmi sulla biografia del Lentini, vorrei provare ad indagare un aspetto un po’ meno noto e che riguarda il suo “rapporto” con Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e la probabile spiegazione del perché in Chiesa Madre troviamo una tela dedicata a questo Santo.

Studiando il significato iconografico ed iconologico della tela dipinta da Mariano Lanziani, ho avuto modo di scoprire ed analizzare anche lo speciale “rapporto” esistente fra Sant’Alfonso ed il Beato Domenico Lentini.

Prima di parlare di ciò, è però opportuno fare un piccolo accenno sui Redentoristi, l’Ordine fondato proprio da Sant’Alfonso nel 1732, e sulla speciale devozione che il vescovo di Lauria del XIX sec., Monsig. Laudisio, avesse verso di loro.

Pare, infatti, che il Monsignore fosse tanto devoto a Sant’Alfonso al punto da aver chiesto  più volte la realizzazione di una tela dedicata al Santo. A riprova di tale devozione vi è non solo il fatto che il Monsignore fosse un Redentorista, ma anche la sua accertata volontà a far costruire una casa per i Redentoristi nell’ex convento di San Bernardino a Lauria Inferiore.

Nel 1843, infatti, Monsignor Laudisio propose tale volontà ai Redentoristi, i quali inizialmente rifiutarono in quanto si erano già stabiliti a Vallo di Lucania, poi però accettarono anche  in seguito alle insistenze del Vescovo; ma prima che si potesse procedere alla conclusione del restauro degli edifici  del Convento di San Bernardino (ora Convento dell’Immacolata) iniziato verso il 1858, e quindi all’erezione canonica della nuova fondazione, si verificarono alcune circostanze che la resero impossibile, come la fine del regno borbonico e la morte di Monsignor Laudisio (1862).

Molto probabilmente, dopo la morte del Vescovo fu realizzata una tela raffigurante Sant’Alfonso come da sua volontà, e la tela fatta da Mariano Lanziani nel 1948 potrebbe essere quindi una copia di quella risalente al 1800, oggi perduta.

Forse però la tela di Sant’Alfonso si trova in Chiesa madre non solo per questo motivo, ma anche per voler in qualche modo sottolineare il legame spirituale esistente fra il Santo ed il Beato.

Tale rapporto va sottolineato, che non è tanto da intendersi in senso di conoscenza personale, poiché quando Sant’Alfonso morì il Lentini aveva solamente sedici anni, ma più che altro come rapporto spirituale.

I biografi del Lentini sono quasi unanimi nel sottolineare il legame spirituale e dottrinale con S. Alfonso, cosa che può considerarsi scontata, dato che il Beato si trovò a vivere e ad operare a cavallo tra Sette e Ottocento, in una regione battuta da S. Alfonso e dai suoi missionari, per di più in una diocesi che aveva un Vescovo redentorista.

Purtroppo, però, non conoscendo nemmeno nello specifico gli studi compiuti dal Lentini o i titoli dei testi che era solito leggere ciò non può essere affermato con certezza, ma rimane in chiave di ipotesi. Certamente il Lentini era solito fare quotidianamente la visita al SS. Sacramento come raccomandava S. Alfonso, nel suo repertorio aveva una predica su « Le glorie di Maria », che era anche il titolo di un famoso libro di S. Alfonso, usava uno stile oratorio semplice e popolare, come voleva S. Alfonso, si improvvisava «cantautore» proprio come S. Alfonso.

Questi elementi certamente non bastano a provare del tutto un particolare influsso dottrinale sul Lentini da parte del Liguori, anche perché quest’ultimo venne canonizzato solo nel 1839 quando il Lentini era già morto, però possono quantomeno contribuire a rafforzare l’ipotesi di un’influenza spirituale.

 

Anna Nica Fittipaldi

DA UNA VISITA GUIDATA SPECIALE AD UNA RIFLESSIONE SU TURISMO ED OSPITALITA’ ACCESSIBILE

scritti sull'arte e beni culturali

Il sei Giugno scorso, per me è stata una giornata molto importante poiché ho avuto l’onore di portare in visita guidata per il centro storico di Lauria delle persone speciali: Luca, Fabio, Gaia, Pierpaolo e le collaboratrice dell’Associazione Italiana Persone Down-ATL Lauria.

Questa esperienza mi ha dato modo di pensare e riflettere su temi quali il turismo accessibile e l’ospitalità accessibile ed inclusiva. Temi di fondamentale importanza, ma che purtroppo non sono conosciuti da molti e soprattutto spesso non ne sono al corrente gli operatori del settore turistico, coloro i quali, invece, dovrebbero essere i primi a sapere tutto al riguardo.

L’accessibilità, difatti, può essere considerata una disciplina trasversale necessaria ad ogni operatore del turismo a qualsiasi livello professionale. Sarebbe appunto auspicabile l’innescarsi di un vero e proprio cambiamento culturale affinchè si vada verso il miglioramento dell’accoglienza, teso ad intendere l’accessibilità come un valore di tutti a prescindere dalla presenza…

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